Secondo l’indagine Confindustria sul Lavoro 2024, il turnover complessivo in Italia ha raggiunto il 34%.
Un dato che nasce dall’incrocio tra il 17,8% di turnover in entrata (nuove assunzioni) e il 16,2% in uscita (dimissioni, licenziamenti o cessazioni). Un flusso costante di persone che entrano ed escono, capace di ridisegnare – spesso in silenzio – la struttura e la cultura interna delle organizzazioni.
E se da un lato questo dinamismo può riflettere un mercato del lavoro più fluido e competitivo, dall’altro rivela una fragilità crescente: l’incapacità di trattenere i talenti.

I numeri, ancora una volta, sono inequivocabili. Secondo l’European Workforce Study 2025, condotto da Great Place to Work su oltre 25.000 lavoratori europei, il 40% dei dipendenti italiani intende cambiare lavoro entro l’anno – con la Generazione Z in testa.
L’Italia risulta così il Paese con la minore stabilità lavorativa d’Europa, seguita da Francia e Polonia (38%) e ben al di sopra della media UE (31%). Nei Paesi del Nord Europa – Norvegia, Paesi Bassi, Germania e Austria – i tassi di retention sono nettamente superiori, a dimostrazione che la stabilità organizzativa non è un caso, ma il risultato di una cultura del benessere e della fiducia.
Il presidente di Great Place to Work Italia, Beniamino Bedusa, va dritto al cuore del problema: “Molte aziende non calcolano il turnover: perdono persone e ne assumono di nuove, senza chiedersi quante hanno perso, perché, o quanti soldi sono stati spesi nel processo”.
Ed è proprio questo il punto più critico: il turnover non è un incidente operativo da gestire con una nuova job description. È un indicatore strategico di salute aziendale, che racconta molto di più di quanto appaia in superficie: parla di leadership, cultura organizzativa, capacità di ascolto e visione sul futuro.
Ma facciamo chiarezza.
1) Che cos’è il turnover del personale
Il termine turnover deriva dall’inglese to turn over, ovvero “girare”, “ricambiare”. Nel linguaggio HR indica il flusso di persone che entrano ed escono da un’organizzazione in un determinato periodo di tempo. Ma ridurlo a un semplice dato statistico sarebbe limitante: il turnover è un termometro del clima aziendale, capace di misurare equilibrio, engagement e salute organizzativa.
In un mondo del lavoro in continua evoluzione, dove le carriere sono sempre meno lineari e le competenze cambiano rapidamente, il turnover è diventato uno specchio delle dinamiche più profonde di un’organizzazione: quanto le persone si sentono valorizzate, quanto condividono i valori aziendali, quanto si percepiscono parte di un progetto comune.
Le quattro facce del turnover
Per leggere correttamente questo fenomeno è necessario distinguere tra diverse tipologie di turnover, ognuna con un significato specifico per chi si occupa di persone:
1. Turnover complessivo
Rappresenta la somma di tutte le entrate e le uscite in un periodo:
(Entrati + Usciti nel periodo) / Organico medio nel periodo × 100
È l’indicatore più generale e offre una fotografia del movimento totale delle risorse umane. Un valore elevato segnala un’organizzazione in “movimento”, ma non dice ancora se questo movimento sia positivo o problematico.
2. Turnover negativo (o in uscita)
Misura solo le uscite, ovvero cessazioni, dimissioni o licenziamenti:
(Usciti / Organico iniziale) × 100
È l’indicatore più importante per analizzare la capacità di trattenere le persone. Va sempre osservato in correlazione con le cause: un 20% di uscite volontarie concentrate nei primi sei mesi racconta una storia molto diversa da un 20% distribuito su pensionamenti programmati.
3. Turnover positivo (o in entrata)
Misura solo le nuove assunzioni:
(Entrati / Organico iniziale) × 100
È utile per valutare la fase di espansione o sostituzione del personale. Un alto turnover positivo può indicare crescita, ma se non è accompagnato da stabilità rischia di trasformarsi in un “porta girevole”
4. Turnover dei nuovi assunti:
Spesso trascurato, ma strategico:
(Nuovi assunti usciti nel periodo / Nuovi assunti totali nel periodo) × 100
Se questo valore è alto, indica problemi nella selezione o nel processo di onboarding: persone che non trovano corrispondenza tra aspettative e realtà aziendale, o che non vengono integrate adeguatamente nei primi mesi critici.
Misurare tutte e quattro le variabili consente di distinguere se il ricambio è fisiologico (cioè naturale e programmato) o patologico (quando il ritmo delle uscite diventa sintomo di malessere interno).
Turnover fisiologico vs turnover patologico
Il turnover fisiologico è un segnale di vitalità: include pensionamenti, mobilità interna programmata o uscite spontanee previste e gestite nel tempo. Ogni organizzazione sana mantiene una certa rotazione che consente rinnovamento, crescita e ricambio generazionale.
In media, un tasso compreso tra il 5% e il 15% è considerato equilibrato, anche se varia molto per settore e dimensione aziendale.
Il turnover patologico, invece, è quello che deve accendere i campanelli d’allarme. Si manifesta quando le persone se ne vanno in modo imprevisto, spesso per insoddisfazione, mancanza di riconoscimento, leadership inefficace o scarsa chiarezza di ruolo. In questi casi, la perdita non è solo numerica ma anche qualitativa: se ne vanno le persone più competenti, più motivate, o più vicine ai clienti. Quelle, cioè, che l’azienda non può permettersi di perdere.
Come osserva Great Place to Work, il vero problema non è la mobilità in sé, ma la perdita di engagement prima ancora delle dimissioni. Ogni uscita non nasce all’improvviso: è il risultato di un progressivo distacco tra ciò che la persona offre e ciò che riceve in termini di senso, fiducia e valorizzazione. Capire il turnover significa imparare a leggere i segnali deboli prima che diventino dimissioni. Analizzare insieme questi indicatori permette ai reparti HR di passare da un approccio reattivo (“cerchiamo un sostituto”) a uno predittivo (“capiamo perché la persona potrebbe andarsene prima che accada”). Significa incrociare i dati quantitativi con informazioni qualitative: exit interview, survey sul clima, valutazioni di performance, feedback continui.
Ecco perché oggi il turnover non è più solo un dato di controllo, ma un indicatore di performance culturale: racconta se le persone si sentono viste, ascoltate e riconosciute. E quando un’azienda impara a leggere questi segnali, il turnover smette di essere solo una perdita e diventa un’occasione di trasformazione consapevole.
2) Quanto costa davvero perdere una persona
Quando un collaboratore lascia l’azienda, l’impatto economico va ben oltre la semplice sostituzione. Il turnover è una delle voci di costo più sottovalutate nei bilanci aziendali, e spesso non viene nemmeno misurato. Eppure, secondo diverse ricerche internazionali – tra cui Gallup e SHRM – il costo medio per sostituire una risorsa può oscillare dal 50% fino al 250% dello stipendio annuo, a seconda del livello di seniority e della complessità del ruolo.
Per capire davvero l’impatto del turnover, è necessario scomporre il costo totale in tre categorie: diretti, indiretti e di opportunità.
1. I costi diretti
Sono i più visibili e facili da quantificare, quelli che compaiono nei budget HR:
- Ricerca e selezione: pubblicazione annunci, screening CV, colloqui con candidati, assessment, eventuali costi di società di recruiting o headhunter.
- Onboarding e formazione: tempo dedicato da HR e manager per l’inserimento, affiancamenti operativi, corsi tecnici o di soft skill, materiali formativi.
- Periodo di minore produttività: nei primi 3-6 mesi, un nuovo assunto lavora mediamente al 60-70% della capacità piena, con un impatto diretto sui risultati del team.
- Errori e rallentamenti iniziali: inevitabili durante la curva di apprendimento, con possibili ripercussioni su qualità, tempi di consegna e relazioni con i clienti.
2. I costi indiretti
Sono quelli che non compaiono nei conti economici, ma pesano di più nel lungo periodo e minano la competitività:
- Perdita di know-how: competenze tecniche, processi interni, soluzioni a problemi ricorrenti. Conoscenze spesso non documentate che spariscono con la persona.
- Perdita di relazioni: clienti che avevano un referente di fiducia, fornitori con cui esisteva un rapporto consolidato, network interni ed esterni costruiti nel tempo.
- Calo di engagement del team: le uscite generano insicurezza, interrogativi (“sarò il prossimo”), e talvolta innescano un effetto domino di dimissioni a catena.
- Stress organizzativo: riassetti improvvisi, redistribuzione dei carichi di lavoro, perdita di continuità nei progetti, riunioni straordinarie per “tappare i buchi”.
Alcuni studi stimano che i costi intangibili rappresentino fino a due terzi del costo totale del turnover. Ed è proprio qui che si annidano le inefficienze più difficili da misurare ma più pericolose per la cultura aziendale e la capacità di attrarre nuovi talenti.
3. I costi opportunità
Sono i costi invisibili delle occasioni mancate, quelli che non si vedono ma che erodono il potenziale di crescita:
- Progetti rimandati o non realizzati per mancanza di risorse o competenze chiave.
- Innovazioni che non vedono la luce per carenza di tempo, energie o continuità nei team di sviluppo.
- Talenti che non vengono attratti perché l’azienda inizia a essere percepita come instabile o poco desiderabile sul mercato.
In una simulazione condotta da Great Place to Work Italia, un’azienda con 100 dipendenti e un tasso di turnover del 10% può arrivare a perdere fino a 200.000 euro l’anno. A questi si aggiungono le ore dedicate dai manager alla gestione delle sostituzioni, la perdita di focus operativo e il rallentamento dei processi decisionali.
Un Esempio concreto
Un recente studio della Wharton School racconta in modo emblematico i problemi legati al turnover. I ricercatori hanno collaborato con un produttore cinese di telefoni cellulari per monitorare i tassi di difettosità dei prodotti nel corso di quattro anni. Grazie a un accesso senza precedenti ai dati aziendali, sono riusciti a individuare esattamente la data, l’orario e il luogo di assemblaggio di ogni telefono, insieme ai livelli di personale presenti in quel momento. Non sorprende che, con l’aumento settimanale dei tassi di turnover nelle fabbriche, aumentassero anche i tassi di difetto dei prodotti. I costi associati a questi difetti ammontavano a centinaia di milioni di dollari.
Le conclusioni per il datore di lavoro hanno ribaltato alcune percezioni sul luogo di lavoro. Mentre i manager presumevano che sostituire un dipendente con una persona altrettanto esperta risolvesse il problema, questo si è rivelato anch’esso fonte di problemi. “La persona che se ne va possiede conoscenze non facilmente sostituibili” ha osservato Ken Moon, professore di Operations, Information and Decisions alla Wharton. “Anche se una linea di assemblaggio non è un ambiente profondamente collaborativo, c’è comunque bisogno di coordinarsi con chi ti sta intorno. E questo conta”.
Il turnover, se misurato e interpretato nel modo giusto, diventa un alleato strategico del controllo di gestione. Non basta sapere quanti escono: serve capire chi, perché e quando. Un turnover “sano” riflette evoluzione, mobilità interna e crescita organizzativa. Un turnover patologico, invece, rivela squilibri profondi nella cultura aziendale, nella leadership o nei processi di valorizzazione delle persone. Le aziende che imparano a leggere i segnali deboli prima delle dimissioni – attraverso survey periodici, feedback continui, analisi predittive – sono quelle che costruiscono davvero la loro sostenibilità nel tempo: economica, culturale e umana.
3) Come prevenire e ridurre il turnover
Sapere quanto costa il turnover è importante. Ma ancora più strategico è capire come prevenirlo, agendo sulle leve che rendono un’azienda un luogo dove le persone vogliono restare — non perché devono, ma perché scelgono di farlo. Oggi le ricerche convergono su un punto decisivo: il 75% delle dimissioni è prevenibile (Work Institute). E il 50% dei casi di turnover è riconducibile a fattori interni e gestibili, come il clima organizzativo, la qualità della leadership o la mancanza di crescita percepita. Questo significa che ogni organizzazione ha ampi margini di miglioramento, se decide di leggere i dati con intelligenza e agire in modo sistemico.
1. Misura, ascolta, previeni
Il primo passo è misurare in modo accurato. Non solo il tasso complessivo di turnover, ma anche:
- Chi se ne va: ruolo, anzianità, livello di performance, generazione di appartenenza
- Quando: nei primi mesi di inserimento o dopo anni di permanenza
- Perché: cause dichiarate nelle exit interview e cause reali emerse dai dati
Associare questi dati ai risultati di survey di engagement, analisi motivazionali e feedback continui consente di individuare pattern predittivi: team con livelli di stress elevato, manager che perdono più persone della media, ruoli in cui le nuove assunzioni non resistono oltre i sei mesi.
È da questa capacità di lettura che nasce la vera prevenzione: non più reattiva, ma anticipatoria.
2. Cura la leadership
Le persone non lasciano l’azienda, lasciano i capi.
Tra le cause più frequenti di abbandono volontario, la qualità della leadership resta al primo posto. E non si tratta solo di competenze gestionali o tecniche, ma di empatia, capacità di ascolto e riconoscimento genuino. Un buon leader sa dare feedback costruttivi, bilanciare obiettivi ambiziosi e benessere delle persone, valorizzare i talenti del proprio team senza metterli in competizione. Sa creare sicurezza psicologica e fiducia.
Formare i manager alla comunicazione consapevole, all’ascolto attivo e alla gestione emotiva dei team è una delle azioni più efficaci per ridurre il turnover.
3. Offri sviluppo e prospettive
Le persone restano dove crescono. Quando un collaboratore percepisce un orizzonte chiaro davanti a sé — fatto di nuove competenze, responsabilità crescenti, sfide stimolanti — non cerca altrove. Investire in formazione continua e su misura, percorsi di carriera trasparenti e opportunità di reskilling rafforza l’engagement e trasforma la crescita individuale in valore collettivo. Non si tratta necessariamente di promozioni verticali: anche lo sviluppo orizzontale, il job rotation o l’acquisizione di competenze trasversali generano senso di progresso. Come evidenziano i dati di Great Place to Work, le aziende che offrono percorsi strutturati di sviluppo hanno un tasso di retention fino al 40% più alto rispetto alla media di settore.
4. Costruisci flessibilità e benessere reale
Il benessere organizzativo non è un benefit opzionale, ma una leva strategica di competitività. Le persone oggi vogliono flessibilità, fiducia e autonomia nella gestione del proprio lavoro. Il lavoro ibrido, la possibilità di personalizzare orari e modalità operative, un clima psicologicamente sicuro dove poter esprimere dubbi e difficoltà senza timore di giudizio: questi sono i fattori che fanno la differenza nella scelta di restare o andarsene.
5. Riconosci, valorizza, celebra
Il riconoscimento è uno dei carburanti più potenti dell’engagement, eppure tra i più trascurati. E non parliamo solo di premi economici o bonus annuali, ma di feedback costruttivi, apprezzamento pubblico e cultura del ringraziamento quotidiano. Un semplice gesto di riconoscimento, dato nel momento giusto e in modo sincero, può rafforzare il senso di appartenenza più di qualsiasi incentivo economico. Le persone vogliono sentirsi viste per il loro contributo, non solo valutate per i risultati numerici. Costruire rituali di celebrazione dei successi, dare visibilità ai traguardi raggiunti dai team, ringraziare pubblicamente chi ha fatto la differenza: sono azioni semplici, ma profondamente trasformative.
6. Diversità, Equità e Inclusione (DEI)
Numerosi studi hanno dimostrato che i dipendenti vogliono lavorare per aziende che valorizzano la diversità. Tuttavia, sanno anche riconoscere quando vengono fatte promesse vuote. Menzionare questi concetti nelle descrizioni di lavoro e nella presenza digitale aziendale è sicuramente un primo passo importante, ma non mantenerle rischia di alienare i lavoratori. Passaggi concreti come assumere un team dedicato agli sforzi DEI, lanciare gruppi di affinità e programmare regolari check-in con i dipendenti possono trasformare le parole in azioni.
7. Seleziona persone allineate ai valori e alla cultura
La prevenzione del turnover inizia prima dell’assunzione. Quando un’azienda sceglie persone coerenti con la propria cultura, i propri valori e il proprio modo di lavorare, riduce in modo naturale il rischio di disallineamento futuro. Non si tratta solo di competenze tecniche — quelle si possono sviluppare — ma di fit culturale e motivazionale: trovare persone che sentano di appartenere all’ambiente in cui lavorano, che condividano l’obiettivo dell’organizzazione, che siano motivate dalle stesse sfide. Le organizzazioni che utilizzano strumenti di analisi predittiva delle soft skill e delle motivazioni in fase di selezione riescono a ridurre drasticamente le uscite nei primi 12 mesi di inserimento. È un approccio data-driven, ma profondamente umano: conoscere prima per costruire meglio.
Dal turnover alla trasformazione: il ruolo dei dati predittivi
Oggi la vera sfida non è “fermare le dimissioni”, ma prevederle e comprenderle prima che accadano. Le aziende che adottano piattaforme di People Analytics possono individuare i segnali precoci di disallineamento: calo dell’engagement, mismatch tra motivazioni individuali e caratteristiche del ruolo, dinamiche di team che anticipano un possibile distacco. Monitorare l’evoluzione delle persone nel tempo significa passare da una gestione reattiva a una leadership predittiva: quella che non rincorre le uscite, ma coltiva attivamente la permanenza. Quella che interviene quando il disagio è ancora un sussurro, non un grido. Perché il turnover, quando diventa misurabile e interpretabile, non è più solo un costo da subire, ma un’occasione per costruire una cultura più consapevole, umana e sostenibile.
Per concludere, il turnover non è solo un numero: è lo specchio della salute di un’organizzazione. Capirne le cause, misurarlo con precisione e agire con intelligenza significa trasformare una perdita in un vantaggio competitivo duraturo. Trattenere le persone giuste è possibile, se si scelgono candidati coerenti con la cultura aziendale fin dall’inizio, si coltiva una leadership empatica e inclusiva, e si utilizzano strumenti predittivi per anticipare i segnali di disallineamento prima che diventino dimissioni.
Se sei interessato a scoprire come:
-
Assumere persone che restano nel tempo
-
Capire davvero cosa le motiva
-
Costruire team più coesi e performanti
-
Ridurre il turnover
Prenota una demo della piattaforma TalenToBe.



